di Paolo Balmas
Le implicazioni economiche e finanziarie del referendum che ha portato la Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea sono innumerevoli e talmente complesse che nessuno riesce a descriverle in modo sintetico e organico. Ogni volta, la questione del dopo Brexit deve essere valutata sotto un certo punto di vista specifico. Ciò è vero anche per le relazioni con i paesi asiatici.
Prima di tutto si cerca di comprendere il nuovo approccio delle potenze estremo-orientali con l’Unione Europea e in particolare quello della Cina. Se è vero che queste nazioni, Repubblica popolare cinese, Giappone e Corea del Sud, avevano scelto Londra come testa di ponte per il mercato europeo, allora devono modificare le proprie strategie se vogliono mantenere i livelli di scambio commerciale con l’Unione.
I tre paesi hanno una relazione privilegiata con Londra. Gli investimenti diretti in Europa di Tokyo e di Pechino, negli ultimi anni, sono per lo più stati diretti in Gran Bretagna. Anche le imprese asiatiche hanno privilegiato la City come luogo per aprire le proprie filiali europee. Nel Regno Unito vi sono circa 1300 sedi di imprese giapponesi e in questi giorni (a meno che non abbiano cambiato idea nelle ultime due settimane) anche le imprese cinesi del settore ferroviario si stanno installando nella City.
La Corea del Sud è l’unica che ha già siglato un Free Trade Agreement (Fta) con l’Unione Europea. Malgrado la relazione commerciale, o forse proprio per questo, Seoul è stata costretta a reagire all’uscita di Londra dall’Ue con un pacchetto di stimolo monetario, annunciato nei giorni subito seguenti il voto britannico. Tuttavia, è anche vero che la Corea del Sud stava subendo una contrazione delle esportazioni verso l’Europa. La causa è da ritrovarsi nella maggiore capacità di penetrazione di alcuni prodotti cinesi che, invece, hanno conquistato fette di mercato europeo negli ultimi due anni.
L’esempio migliore per comprendere il fenomeno riguarda il settore della telefonia. La coreana Samsung, fra il 2013 e il 2015, ha subito un ridimensionamento delle esportazioni dei propri smartphone sul mercato mondiale, dal 31% al 22% circa. Questa enorme fetta di mercato, circa il 9% del totale globale, è stata coperta dalle imprese cinesi, la più nota delle quali è la Huawei. Le esportazioni di smartphone cinesi sono aumentate nello stesso periodo dal 8,8% al 15,3%.
L’Unione Europea è stata chiaramente uno dei maggiori mercati di destinazione, malgrado Seoul operasse attraverso un Fta e Pechino senza. Si potrebbe immaginare di essere di fronte a un caso di classico dumping made in China, ma basta osservare e confrontare i prezzi degli smartphone coreani e cinesi in un qualsiasi negozio e scoprire che, almeno in Italia, non è così.
Per Pechino il dopo Brexit assume un valore apparentemente negativo perché perde l’appoggio della Gran Bretagna a Bruxelles. Londra si è battuta presso l’Unione, quanto presso il Wto, per far ottenere lo stato di economia di mercato (Mes) alla Cina. Tuttavia, il legame stretto fra Pechino e Londra soprattutto in materia finanziaria, non può essere reciso con il referendum di giugno. Il principale obiettivo cinese va ben oltre l’accesso al mercato europeo attraverso la City. Questa, infatti, più che una testa di ponte sul Vecchio Continente è la porta della Cina sulla finanza globale.
Per quanto riguarda l’Unione Europea, così, la Cina sarà probabilmente costretta a trovare una nuova sede per i rapporti finanziari con Bruxelles. Gli analisti concordano sul fatto che la Germania sia la meta più naturale, ma ci si chiede perché Milano non si presti a tale scopo.
Anche l’India si ritrova a dover aggiustare il tiro. L’India è uno dei maggiori investitori diretti stranieri nel Regno Unito. I capitali indiani versati sul mercato britannico sono molto maggiori di quelli diretti agli altri paesi dell’Ue messi insieme. Forse, la politica economica di Nuova Delhi in Europa è quella che esemplifica maggiormente le problematiche che stanno affrontando i paesi asiatici nel dopo Brexit.
La Tata Steel (impresa del gruppo indiano Tata Group) ha intrapreso il processo per la vendita delle acciaierie di Port Talbot, nel Galles. Il problema di fondo è che non riesce a competere con l’acciaio cinese, prodotto a ritmi elevatissimi e venduto a prezzi inferiori. Ora che la Gran Bretagna esce dall’Unione sarebbe ancora più difficile resistere, poiché decadranno i privilegi dell’area del mercato comune.
Lo scorso aprile, Charles de Lusignan, portavoce della European Steel Association (Eurofer), aveva fatto notare come fosse pericoloso l’atteggiamento della Gran Bretagna riguardo al mercato dell’acciaio. Secondo de Lusignan, Londra si era schierata in favore di Pechino per limitare gli sforzi di Eurofer a far riconoscere il sistema di vendita dell’acciaio cinese in Europa come un fenomeno di dumping. Il suo intervento si era concluso con l’accusa rivolta al governo britannico di non fare nulla per contrastare la crisi che ha colpito il mercato europeo dell’acciaio, mentre Londra si era sempre detta attiva per la soluzione della crisi stessa.
In generale si presenta uno scenario in cui l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea complica la normalizzazione dei rapporti commerciali fra le potenze asiatiche e l’Unione. All’orizzonte si delinea un periodo, probabilmente prolungato, in cui Bruxelles sarà colpita dalle incertezze e dalle difficoltà, ma anche dalla necessità di portare a termine i grandi trattati di questi anni, dal Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) agli Fta con la Cina, con il Giappone e con l’India.
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