di Giulio Tremonti
Negli anni ’70 il Regno Unito (qui di seguito: UK) era davvero molto attratto dall’Europa. Un’Europa che per la verità ancora si chiamava CEE (Comunità Economica Europea) e non UE (Unione Europea).
In quel clima negli ambienti diplomatici europei prese forma e cominciò a circolare questo “divertissement”.
Tanto forte e diffuso è l’interesse britannico verso l’Europa che nell’isola si comincia a pensare di adottare la guida a destra, invece di quella a sinistra. Un gruppo “ad hoc” si mette all’opera su questa ipotesi, ma nel corso dei lavori viene formulato il seguente rilievo: i francesi sono cartesiani e giacobini e perciò a suo tempo hanno deciso tutto di colpo. Noi britannici siamo invece empirici e sperimentalisti: potremmo cominciare dai camion…
Analoghi o diciamo così parimenti complessi sono i problemi di traffico che oggi si stanno manifestando, e via via si manifesteranno, sui due lati della Manica.
Per la verità molti effetti si sono già ed intensamente manifestati, sul piano simbolico e psicologico e perciò anche economico e soprattutto finanziario, dato il gioco delle prospettive e delle aspettative.
Ma il più deve ancora venire e perciò qui si seguito si prova a tracciare proprio la mappa del traffico a venire, segnalando la presenza sul campo e l’interazione tra i tantissimi fattori che sono e saranno in gioco.
Fattori politici e diplomatici, storici e geopolitici, di diritto internazionale e di diritto interno, legali e fiscali, alcuni già in essere, altri ancora in divenire, ma tutti variamente destinati a manifestarsi nel durante del percorso di recesso di UK dall’UE. E nei termini che seguono:
- “due giugni diversi”. Come nel giugno del 1975 fu un referendum popolare a sancire l’adesione inglese alla CEE, così simmetricamente è ancora un referendum popolare – se pure di segno contrario – che nel giugno del 2016 sancisce per UK il recesso dall’UE. Ciò che dovrebbe forse suggerire una prima riflessione: non è che, se le cose vanno bene dal lato di Bruxelles, allora il referendum è uno strumento “democratico”;
quando invece vanno male, il referendum è demoniaco o peggio “populista”. Forse si dovrebbe cominciare davvero a distinguere tra il termometro e la febbre. Ed in specie a distinguere tra il termometro e la febbre per curarla, la febbre, non per negarne l’esistenza;
- “lucro cessante, danno emergente”. Per effetto automatico dell’“out” votato con il suo ultimo referendum, UK perde le concessioni ottenute a suo favore questa primavera dall’UE, ma da questa espressamente subordinate alla sua permanenza nell’UE. Concessioni di portata politica e pratica straordinaria: no all’obiettivo programmatico di una “Unione sempre più stretta”; no sostanziale alla legislazione europea sull’immigrazione; no all’estensione automatica ai non britannici del “welfare-State” britannico; soprattutto no all’estensione continua della legislazione europea. E, naturalmente, si trattava di concessioni aggiuntive rispetto alle precedenti “eccezioni” inglesi.
Si noti che tutto quanto sopra è stato comunque concesso dall’UE ad UK in quanto definito come compatibile con i principi contenuti nei Trattati di Unione.
Su questa base di diritto, lo stesso può dunque oggi essere chiesto e/o rivendicato, sul continente, da tutti gli altri Stati dell’UE. Questo un effetto esterno e per così dire collaterale rispetto a “Brexit”. Ma, come è del tutto evidente, un effetto di enorme potenziale portata politica!
- “un caso senza precedenti”. Certo, l’indipendenza dell’Algeria dalla Francia ed il distacco della Groenlandia dalla Danimarca hanno costituito precedenti di uscita dall’UE, ma è evidente che si è trattato di casi minori. E, comunque, di casi che non hanno preso la forma dell’espressa applicazione (del successivo) art. 50 del Trattato UE.
Più in generale, se negli scorsi decenni nel resto del mondo la pace e la sicurezza portate del mercato hanno fatto emergere e portato al successo numerosi casi di autodeterminazione e di secessione, una spinta contraria si è invece sviluppata in Europa, e qui proprio verso l’UE, cresciuta costantemente da 6 a 12 fino a 28 Stati membri. E tutto in un arco di tempo che in senso storico è minimo.
Così che, se l’art. 50 sul recesso finora non era mai stato applicato, per contro le vecchie norme sull’adesione prima e poi da ultimo l’art. 49 dello stesso Trattato UE hanno invece avuto, in opposta direzione, la più vasta applicazione (anche per effetto del sostegno inglese all’“allargamento”!);
- “l’ironia della storia”. Fatte alcune (per la verità molte) differenze, a partire dal 2013, quando ha indetto il suo ultimo referendum, UK si è comportato verso l’UE come le colonie americane si erano comportate con la Corona Britannica. O come al principio del ‘500 questa si è comportata con la Chiesa romana (l’europa di allora!).
Va solo notato che se l’idea e l’esperienza dell’“out” sono tipiche dell'ideologia e della prassi politica e mercantile britannica (e lo sono a partire da Adam Smith, per arrivare al discorso di Bruges), l’ideologia e la prassi europea sono invece tipicamente e sistematicamente inclusive.
Basti leggere per intero l’art. 50, in cui non si prevede solo un “accordo sulle modalità di recesso”, ma in più se ne ipotizza lo sviluppo “tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione”!
- “l’asimmetria unione-euro”. Se dall’UE si può uscire, dall’euro non si può uscire: «Tutti coloro che hanno avuto il privilegio di tenere la penna per scrivere la prima versione del Trattato di Maastricht hanno fatto in modo che un’uscita non fosse possibile. Siamo stati ben attenti a evitare di scrivere un articolo che consentisse a uno Stato membro di andarsene. Questo non è molto democratico, ma è una garanzia per rendere le cose più difficili, in modo che fossimo costretti ad andare avanti» (così fu scritto da Jacques Attali). Questo è del resto coerente con l’«illuminato» dictum di Goethe: «Il primo passo è libero, è al secondo che siamo tutti obbligati».
Tutto ciò rende affatto curioso il caso del rapporto tra l’UE e la Grecia, come questo è stato finora politicamente gestito.
Mentre UK ha cominciato con il rifiuto dell’euro ed ha proseguito con il recesso dall’UE, sulla Grecia si è sviluppata (e non si sa quanto utilmente) la doppia minaccia: se andate fuori dall’euro, allora andate fuori anche dall’UE!;
- “no way back”. Al recesso dall’unione di UK non fa automaticamente seguito il ritorno al regime di cui questo godeva prima della sua adesione all’UE.
Ciò vuol dire che UK non ritorna automaticamente allo “status” che aveva quando, prima di entrare nell’UE, era uno Stato membro dell’EFTA (Associazione europea di libero scambio), poi divenuta SEE.
Nel caso di “Brexit” non trovano infatti diretta applicazione né la clausola “rebus sic stantibus”, nè la Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati.
UK, se lo volesse, dovrebbe dunque “ex novo” contrattare con l’UE, per esempio un suo eventuale ingresso in SEE
Senza contare che se UK volesse entrare in SEE dovrebbe, come è per esempio per la Norvegia, accettare proprio quel regime europeo di libera circolazione degli immigrati che è stato così violentemente contestato proprio in sede di referendum;
- “un discorso sul tempo e sul metodo”. Normalmente, come ha del resto evidenziato anche la House of Lords (Library Note. Leaving the EU: Parlament’s Role in the Process”), il tempo di sviluppo di un medio trattato internazionale o comunque anche solo di un accordo commerciale è raramente inferiore a 4 anni, a volte si arriva anche a 9.
Per verificarlo, basti contare il grande numero delle pagine da cui questi strumenti sono mediamente composti!
In questi termini i 2 anni di cui all’art. 50, peraltro previsti come prorogabili, sono dunque puramente indicativi;
- quali “controparti”? Dal lato di UK, superato la shock iniziale, la trattativa la fa il nuovo Governo, sorto dalle macerie del precedente quasi come un “governo di scopo”. Dal lato europeo non è così semplice. Una volta si sarebbe detto: la naturale controparte per la trattativa è la Commissione Europa (come del resto è stato finora per tutti gli altri Trattati). Oggi, dato il ruolo politico decrescente della Commissione, è probabile (anzi è già evidente) che il primo piano per la trattativa sarà quello intergovernativo (in teoria, il Consiglio dei Capi di Stato e di governo). Un piano su cui sarà comunque dominante il peso ed il ruolo della diarchia tedesco-francese. Questa non per caso ma “pour-cause” già del resto prescelta da UK come primo interlocutore. Il ruolo degli altri Stati e del Parlamento europeo sarà dunque e per forza secondario. Ma non può essere escluso che, fuori da questo schema, altri e diversi interessi nazionali (ed elettorali) si presentino sulla scena, rendendo il processo niente affatto lineare e tranquillo.
Se c’è comunque una cosa sicura è che la trattativa sarà fatta in lingua inglese. Questa infatti non è solo la lingua veicolare o la lingua franca che si usa in Europa, ma – soluzione tipicamente europea – potrebbe anche essere riconosciuta come lingua ufficiale della trattativa, essendo ancora l’inglese una lingua ufficiale dell’Unione, data la permanenza nell’UE di Malta e dell’Irlanda!
- “fisiologia e patologia”. Se tutto quanto sopra è in teoria fisiologico, ciò che potrebbe essere fonte di enormi complessità e patologie è quanto potrebbe derivare:
- dal grande ciclo elettorale che, proprio nel durante dell’accordo, si svilupperà in Francia, in Germania, in Olanda;
- dal disordine creato dagli imprenditori politici dell’antipolitica e dai tribuni della plebe, tutti questi attivi a macchia d’olio in tante e crescenti parti dell’UE. Tutti questi forti nella “pars destruens”, ma incapaci ed assenti nella elaborazione della “pars construens”. Come si è visto in UK, nel “day after”!;
- dagli effetti che saranno creati dalla fine di una comunque importante fonte di alimentazione finanziaria del bilancio dell’UE.
A partire dal fronte est, principalmente beneficiario dei trasferimenti finanziari e qui in specie a partire dal cosiddetto Gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, etc); - da sempre possibili errori di comunicazione o di impostazione nella strategia contrattuale.
A titolo indicativo a questo proposito: dal lato UK c’è stata e potrebbe esserci la formulazione di posizioni aggressive ed irriflessive, tipo faremo di Londra una super Singapore, ovvero un super paradiso fiscale; dal lato UE, sono già state abbozzate, ed in negativo, posizioni “vendicative” o peggio ancora “educative”, queste in alcuni casi di stile tedesco;
- “un limbo giuridico”. In assenza di incidenti, nel durante dello sviluppo dell’accordo di recesso, e dunque ancora per molti anni, il sistema dei rapporti giuridici tra UK e UE resterà esattamente quello di prima! Già da ora si sa che niente potrà più essere come prima! Ma nel durante sarà l’opposto!
- “gli altri Trattati”. A titolo indicativo, l’UE sta trattando, e sta trattando come UE e perciò anche per conto dei suoi Stati membri, numerosi trattati, a partire dal TTIP, per arrivare all’accordo di Tegucigalpa.
Se l’UE non potrà più farlo anche per conto di UK, da qui in avanti UK dovrà dunque trattare da sola. Ma, per mettere in evidenza quanto sarà complesso tutto il nuovo scacchiere dei trattati, valga un esempio: se è vero che a suo tempo (nel 1994) UK è entrato nel WTO via UE, cosa sarà per UK ora che ne esce? Dato come c’è entrata, non resterà automaticamente nel WTO, dovrà e/o potrà rientrarci… ma con il consenso dell’UE!
Per contro, è invece davvero ingenuo pensare che, per il resto, un limite all’azione internazionale di UK possa derivare dalla sua uscita dall’UE. Che la sua uscita possa influenzare per esempio la posizione di UK in sede di G7/G20, ovvero in sede OCSE. In queste sedi l’azione di UK, storicamente sostenuta dai paesi dell’“anglosfera”, è infatti sempre stata e sarà ispirata, solo che l’UK lo voglia, da una grande forza ed autonomia;
- “il dominio giuridico”. Finora, ed in larga parte all’interno dell’UE, il “diritto inglese” è stato il diritto prevalente e/o il diritto franco. Può essere che questo regime possa comunque continuare in sede contrattuale, per le parti che, tra di loro, liberamente convengono comunque di usare e di riconoscere il diritto inglese.
Ma un conto è il caso del “diritto-parametro”: il caso del diritto inglese adottato tra le parti appunto come parametro.
Un conto è invece il caso del “diritto-fonte”: il caso del diritto di uno Stato che non è più parte dell’UE e che perciò a molto effetti, ad esempio nella sede di giudizio delle Corti europee, non è più riconosciuto come parte e/o fonte del diritto europeo.
In questi termini pare dunque abbastanza improbabile e/o inutile che UK possa reagire a “Brexit” clonando su vasta scala i modelli ed i tipi più efficienti del diritto europeo, così cercando di ricreare in UK, a favore dei non residenti, il migliore possibile ambiente giuridico di modello e di tipo “inglese”. Non funzionerebbe;
- “la transizione”. Se, come notato sopra, nel durante dell’accordo di recesso è come essere in un limbo, tutti i materiali giuridici che per loro natura hanno carattere di durata (dai contratti alle società, dalle operazioni di investimento ai finanziamenti) dovranno comunque tenere conto del fatto che, prima o poi, anche il regime di limbo finirà.
Ad oggi in molti strumenti contrattuali sono già ordinariamente contenuti strumenti di aggiustamento, a fronte di eventi di “jus superveniens”.
Questi dovranno essere tuttavia specificati, ad esempio in considerazione dell’uscita di UK dal campo di applicazione dei regimi europei di direttiva fiscale, questi molto più convenienti dei pur sopravviventi regimi di convenzione internazionale in essere tra UK ed i vari Stati europei.
Da “Brexit” deriverà in ogni caso, come conseguenza, se non un blocco, il rallentamento nella circolazione e/o incorporazione in UK di società di matrice europea; deriverà il rallentamento delle operazioni “cross-border”; si porranno problemi di “abuso del diritto”. Questo potrebbe essere per esempio un caso per quelle società che usciranno da UK per la sola ragione di “Brexit”, in specie per la ragione che con “Brexit” vengono a perdere il precedente vecchio regime (di favore) fiscale, così automaticamente confessando che quella fiscale, e non altra, era la vera ragione della loro incorporazione in UK!
- “la geopolitca e la storia in divenire”. Con “Brexit” la storia ha ripreso il suo corso. Dal lato russo è già stato enfaticamente scritto che: con “Brexit” non è UK che si libera dell’UE, ma l’Europa che si libera dagli USA!
E dunque si ritornerebbe al dilemma di Waterloo: fu una sconfitta (per il vecchio continente) od una vittoria (per il nuovo mondo atlantico)? Potenze di terra contro potenze di mare, come nella suggestione di Karl Schmitt.
L’Europa continentale e qui in specie la Germania, una volta perso e/o depotenziato il baricentro atlantico, scivolerà davvero verso la Russia e di qui e soprattutto verso l’Asia?
All’opposto, certamente per ora e come minimo con “Brexit” la Cina perde la sua principale alleata in UE. Si pensi a questo proposito ad esempio all’aspirazione cinese a configurarsi come “economia di mercato”, aspirazione finora sostenuta soprattutto da UK;
- “risorse militari e diplomatiche”. Per l’UE “Brexit” equivale, tra l’altro, alla perdita di una vasta e costosa quota di risorse militari e diplomatiche;
- per concludere, oggi davanti ad UK essenzialmente si presentano tre scenari:
- avere lo status di “paese terzo” (come USA, Brasile, India);
- avere lo status di “paese associato” (come la Turchia);
- avere lo status di paese membro della vecchia EFTA, ora SEE
(come per esempio la Norvegia o l’Islanda).
Sia qui consentito di formulare che anche l’Europa che ha davanti a sé tre scenari:
- continuare con una Unione sopra gli Stati e senza democrazia. Questa una utopia, se non è fallita, per un po’ va messa in freezer, proprio al fine di conservarla per un futuro migliore;
- tornare a Stati nazionali tra di solo isolati, come erano nel dopoguerra. Stati padroni del loro passato, ma non del loro presente e del loro futuro, perché fatalmente destinati ad essere dominati da forze globali superiori, a partire da quelle proprie ed improrie della finanza;
- ripartire da Stati che si uniscono in una Confederazione che li unisce sopra, in ciò che può e deve essere unito (ad esempio, i servizi di difesa e di “intelligence”), lasciando sotto ciò che può invece e deve essere sussidiariamente lasciato alle sovranità nazionali.
In questo nuovo schema europeo, uno schema in cui chi scrive fortemente crede, potrebbe forse rientrare anche il Regno Unito.
Lasciaci la tua opinione
Ordina commenti dal più recente
Mauro Grussu
Gentile Prof. Tremonti, Le Sue riflessioni "after Brexit" , scientemente arricchite con gli opportuni riferimenti cronologici, denotano l'autorevole conoscenza dei meccanismi che regolano il funzionamento , e la "vita" dell'Organo Sovrano UE. Scorrendo tra le righe, in realtà, a Chi Le scrive sovviene come di impulso un salto nel tempo, esattamente di 25 anni , ovvero al Trattato di Maasctricht, il “milestone” di una strategia politica che battezzando la nascita dell’Unione Europea, in luogo dell’oramai scaduta Comunità Economica Europea, sanciva l’avvio delle politiche di unificazione monetaria, ma ancor più lo start up di un Organo collegialmente approvato dai Rappresentanti di 12 Stati membri, e nello specifico Italiano, si è deciso allora di consegnare il Territorio, la Civilità, la Storia, l’Identità, l’Indipendenza, la Sovranità, la Lingua, l’Economia, la Moneta, la Bandiera della Nazione, Italia agli stranieri prima, e ad un unico soggetto di seguito. Una strategia quindi voluta, che ancora oggi, dalle Alpi alla Sicilia (credo in buona fede di non sbagliare) non è mai stata recepita, perché nessuno ne ha mai illustrato i contenuti, se non l’aver parlato di quei famosi pilastri, che parevano essere “epocali” come la libera circolazione, la cittadinanza europea, il mediatore europeo! Allorquando entrò in vigore Maastricht, si parlò del principio “regolatore” della Sussidiarietà, che sarebbe dovuto essere l’elemento “super partes” di una politica moderna, una garanzia insomma per i cittadini Europei, nel momento in cui si fossero ravvisate delle inadempienze, perché così era dato capire. Ebbene, in un successivo balzo nel tempo, la Sussidiarietà si è trasformata in una netta prevaricazione da parte della UE ( come forse era nei programmi e nelle intenzioni iniziali), diversamente non si spiegherebbe il perché della mancata applicazione di talune cosiddette “Best Practies”, che in dettaglio significherebbe la mancata attuazione di programmi funzionali laddove “gap” e/o mala gestio hanno prodotto chiari squilibri sociali, ma anche nella democrazia. L’Italia è uno dei migliori esempi “nel peggio”, con i propri “autorevoli” squilibri sociali, sul diritto al lavoro, sulla tutela della Famiglia, sulla Sanità, sul diritto all’Istruzione, passando per i Servizi alla collettività, ai trasporti e quant’altro ancora . Ecco quindi, le illusioni di allora hanno lasciato spazio ai dubbi che da qualche anno aleggiavano sugli Italiani, e che oggi si traducono in una realtà incontrovertibile: Siamo sotto una vera e propria Dittatura, certo dalle modalità differenti rispetto alle dittature tiranniche, ma agli effetti pratici, ciò che una volta era tortura, “fisica”se anche oggi è divenuta Tortura “ fiscale”, per equazione è sempre Tortura. Un Paese distrutto, disaggregato, confuso, impaurito, che ha bisogno di dare seguito a un nuovo corso, che ha necessità di riaprire gli occhi, e perché no, ricominciare a sognare, anche e soprattutto grazie ai corsi storici, che sono i cambiamenti, e Brexit docet! Gli equilibri, piaccia o meno sono mutati, e alla UE il messaggio Brexit, ha suonato come un Knock out pugilistico , è stata la dimostrazione palese che una corda da troppo tempo “sfilacciata” , senza opportuni interventi finisce con lo spezzarsi. L’Italia, dal nostro punto di vista, che non è una semplice opinione, o animata da meri sentimenti, è ancora nelle condizioni di Trattare, o forse meglio dire ri-trattare con la UE, semplicemente perché la nostra è una presenza strategica nella attuale composizione della UE, ma tutto ciò non potrà assolutamente aver luogo , se prima l’ Italia non deciderà, indipendentemente dalla stessa EU, di “civilizzarsi” politicamente , quale strumento imprescindibile della volontà al cambiamento. Noi di Movimento Base Italia, abbiamo certamente un manifesto politico, che è il raccolto della semina nel territorio , il risultato di ciò che gli Italiani chiedono, per scongiurare di fatto una totale e “pericolosamente” irrevocabile perdita , di quel briciolo di identità ancora in nostro possesso. I dati allarmanti di segreti, ora non più segreti, che in realtà traducono in un linguaggio comprensibile, cosa celano determinate situazioni (divenute oramai pandemie), stanno scuotendo animi e coscienze, perciò occorre ascoltare, e saper ascoltare bene i sintomi della Base, affinchè le successive “ prescrizioni terapeutiche” siano perfettamente allineate con le diagnosi!
Condividi