L’ Amministrazione Usa sembra aver cambiato decisamente direzione in merito alla Siria e alla Russia negli ultimi giorni, abbandonando la posizione sostenuta da Trump durante e dopo la campagna elettorale in merito alla necessità di collaborare con Vladimir Putin, e anche di non iniziare nuove guerre in Medio Oriente.
Il bombardamento della base aerea siriana di Shayrat, in risposta all’attacco chimico del 4 aprile ad Idlib, ha dato il via ad una serie di dichiarazioni aggressive da parte di Trump stesso e della sua squadra di politica estera, a partire dal Segretario di Stato Rex Tillerson e dall’Ambasciatrice all’ONU Nikki Haley. Se si rivelerà in effetti un cambiamento di rotta, cioè la decisione che “Assad se ne deve andare” dopo aver sostenuto il contrario pochi giorni prima, sarà una grande vittoria per le forze tradizionali dell’establishment americano, che si erano prefissate l’obiettivo di temperare gli eccessi di Trump, riprendendo di fatto il controllo sulla politica estera.
Qualcuno pensa che Trump sia un genio che fa un gioco a più livelli. E il presidente stesso sicuramente crede di essere in controllo della situazione, di aver compiuto un’azione che gli farà guadagnare punti con alcuni dei suoi critici e che allontanerà le pressioni sulla Casa Bianca in merito ai contatti con la Russia. Infatti dapprima si era parlato di un bombardamento una tantum, che non avrebbe cambiato sostanzialmente il nuovo corso di politica estera voluta da Trump. Sia Tillerson che il Segretario alla Difesa Mattis sostengono che l’obiettivo principale rimane l’ISIS, e il presidente stesso ha dichiarato pochi giorni fa che “Non andremo in Siria”. Tuttavia è impossibile ignorare l’escalation di parole dure nei confronti di Assad e anche di Putin, che ha cambiato rapidamente il clima internazionale.
In merito all’attacco stesso, e ai dubbi che potesse essere una provocazione proprio per fare intervenire gli Usa, come già successo in passato, l’Amministrazione ha pubblicato un white paper di 4 pagine, ma senza fornire gli elementi precisi di intelligence raccolti, per proteggere “fonti e metodi”.
Nei primi giorni dopo l’attacco chimico alcune fonti americane dicevano che non era stato possibile identificare aerei nella zona di Idlib dove è avvenuto l’episodio, ma più tardi sarebbe stato identificato un drone. Alcuni analisti hanno concluso che il drone potesse provenire da una base di operazioni speciali nella Giordania utilizzata da Israele e dall’Arabia Saudita, e quindi proprio con lo scopo di influenzare l’Amministrazione Trump.
Per smentire questa teoria (e altre) sarebbe necessario pubblicare le informazioni citate nel white paper, che tra l’altro è stato preparato sotto l’egida del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, e non dalla CIA o dalla direzione nazionale dell’intelligence (DNI).
La paura di una manipolazione dell’intelligence è emersa proprio nei due giorni prima che Trump decidesse di bombardare, mettendo dalla stessa parte due consiglieri chiave del presidente, Steve Bannon e Jared Kushner, che invece si combattono su altri punti in questo momento. I due volevano far pubblicare i documenti in merito all’attacco a Ghouta nel 2013, come ammonimento contro un giudizio frettoloso, ma la linea che è prevalsa è quella più interventista, guidata dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale generale McMaster.
E’ importante notare che McMaster deve il suo posto alla campagna stampa sul Russiagate che ha costretto il generale Michael Flynn alle dimissioni a febbraio. Flynn era uno dei consiglierei meno mainstream, con una visione ideologica per esempio dello scontro con l’Islam, ma anche tra quelli più decisi ad evitare il ritorno alla politica di ‘cambiamento di regime’, parole che invece sono di nuovo utilizzate da rappresentanti del Governo Usa. Per questo motivo molti neoconservatori sono più contenti ora, e convinti che Trump abbia perso lo spazio di manovra necessario per compiere una rottura secca con la politica estera di Washington degli ultimi anni.
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