Immigrazione: quando la politica sta ferma a discutere, mentre la realtà corre e va oltre

Italia

di Gian Carlo Blangiardo

Pochi si sono accorti che il 5 febbraio di quest’anno la legge n.91/1992 “Nuove norme sulla cittadinanza” ha compiuto un quarto di secolo. Chi l’avrebbe detto? È riuscita a sopravvivere quasi indenne - giusto qualche modesto ritocco - tra mille attacchi che hanno spesso usato come argomento forte la necessità di risolvere, a favore del primo, l’amletico dilemma tra Jus soli e jus sanguinis.

Per alcuni, i più benevoli, la legge 91/1992 è semplicemente “vecchia”: è superata dai tempi, in quanto figlia di una logica da popolo di emigranti che voleva salvaguardare il “patto di sangue” con la propria stirpe. Per altri, i più accaniti, si tratta a tutti gli effetti di una norma “cattiva” – quasi da denuncia al “telefono azzurro” – fatta per negare ai bambini che hanno avuto la disavventura di nascere da genitori stranieri - quand’anche siano venuti alla luce entro i confini del Bel Paese - la soddisfazione di possedere un proprio passaporto (italiano) diverso da quello di mamma e papà. Sì, perché la “sciagurata” legge sposa un insano principio familiare, secondo cui lo status dei bambini - almeno fino a che tali restano -  non può divergere da quello dei loro genitori (che “per caso” ne hanno anche la responsabiltà/potestà).

Ma “l’insensatezza” della cattiva legge spinge il principio familiare agli estremi giungendo a stabilire – udite, udite! - che “ i figli minori di chi acquista o riacquista la cittadinanza italiana, se convivono con esso, acquistano – a loro volta - la cittadinanza italiana -pur potendovi rinunciare quando maggiorenni (art.14)”.

Colpo di scena! Ma allora non restano necessariamente stranieri fino alla maggiore età! E pensare che nei dibattiti e nelle piazze serpeggia la generale convinzione che il destino di ogni minore straniero sia quello di restare tale inesorabilmente sino al 18° compleanno (se nato in Italia) o sino a che (se immigrato da piccolo) non avvierà egli stesso, quando maggiorenne, la procedura per la propria “naturalizzazione”.

L’idea che ci sia una terza via, quella della “trasmissione della cittadinanza ai figli” da parte di un genitore divenuto italiano è una possibilità che spesso si ignora e che, più o meno colpevolmente, si tende a non far sapere.  In certi dibattiti è meglio insistere sull’immagine del povero bambino isolato dai pari, per via della sua estraneità, e intento a contare i giorni che lo separano dal mitico diciottesimo compleanno.

Eppure anche sul fronte dei minori la tanto vituperata legge n.91/1992 continua imperterrita a dare risultati che sono tanto “interessanti” quanto poco enfatizzati dai media. Ad esempio, nell’anno 2014 sono state ben 45.744 le acquisizioni di cittadinanza “per trasmissione” ai sensi dell’art.14 di cui sopra (Istat, 2016). Stiamo parlando di un terzo dei circa 130 mila stranieri che in quello stesso anno sono divenuti italiani. Mica male, no? Ma c’è di più. Sempre nel 2014 - ultimo anno per cui è possibile un confronto internazionale - la nostra “brutta legge”, con buona pace dei suoi detrattori, ha posizionato l’Italia al secondo posto nell’Ue per numero di concessioni di cittadinanza, battuta solo dalla Spagna, (Eurostat, 2017). Senza grande clamore abbiamo acquisito qualche migliaio di nuovi cittadini in più rispetto al Regno Unito e abbiamo sopravanzato del 15%-20% la Germania e la Francia. La norma brutta e cattiva ha dunque dato più frutti di quelle belle e buone, e non si è fermata lì. Nel 2015 le acquisizioni di cittadinanza sono salite a 178 mila e nel 2016 hanno raggiunto 205 mila unità (Istat 2017). Quanto al problema dei bambini condannati a vivere da stranieri, basti sapere che in poco meno del 40% dei casi la concessione di cittadinanza ha riguardato proprio soggetti minorenni.

Fatte queste premesse, non è che mentre stiamo qui a discutere, o ricominciamo a discutere (vedi Corsera 12 Marzo pag.26) su Jus soli e Jus sanguinis la realtà del mondo che cambia, pur a norme immutate, rischia di sorpassarci?

In un Paese che vive una profonda crisi della natalità - con un nuovo record di minimo nel 2016 - e in cui gli stessi nati stranieri, i potenziali beneficiari dello Jus soli, sono andati via via diminuendo negli ultimi tre anni, da 80 mila nel 2012 a 61 mila nel 2016 (Istat, 2017), forse la vecchia legge basata sul sano principio di uno status di origine familiare non è poi così da rottamare. Facciamole pure un tagliando se proprio non se ne può fare a meno, ma evitiamo di ricominciare con dibattiti e battaglie per cambiare un mondo che è già cambiato di sua iniziativa.

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